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Canelli, la città del vino

Ultimo aggiornamento: 1 dicembre 2022, 16:45

Canelli è uno dei "santuari" mondiali del vino: in pochi altri casi l'enologia e la viticoltura hanno influenzato così profondamente il paesaggio, l'economia, la storia, la vita stessa di una comunità.

Sulle colline che circondano la città, la vigna esiste praticamente da sempre: dapprima per soddisfare un fabbisogno strettamente locale, poi, dal basso Medioevo, per alimentare un commercio sempre più fiorente e diffuso, destinato a diventare ben presto la maggior risorsa del territorio." (La civiltà del vino)


La civiltà del vino

Canelli è uno dei "santuari" mondiali del vino: in pochi altri casi l'enologia e la viticoltura hanno influenzato così profondamente il paesaggio, l'economia, la storia, la vita stessa di una comunità.

Sulle colline che circondano la città, la vigna esiste praticamente da sempre: dapprima per soddisfare un fabbisogno strettamente locale, poi, dal basso Medioevo, per alimentare un commercio sempre più fiorente e diffuso, destinato a diventare ben presto la maggior risorsa del territorio.

"Lo maggior frutto di questa terra egli è il vino, qual riesce delicato, dolce, perfetto, stante massime l'industria degli abitatori quali su colli di ragionevoli fruttività ne traggono il sufficiente per vivere".  Così nel 1756 l'intendente delle Regie Finanze, in una relazione concernente Canelli, prendeva atto di una realtà consolidata ormai da molto tempo e al tempo stesso testimoniava l'inizio dell'età dell'oro per l'enologia canellese. Il miglioramento delle tecniche di produzione, e soprattutto il diffondersi dell'uso di bottiglie di vetro e di tappi di sughero consentì al Moscato di Canelli, suo prodotto principe, di essere trasportato in tutto il mondo. Sulla scia delle fortune internazionali di questo vino nacquero presto le industrie enologiche, che condizionarono definitivamente lo sviluppo economico, urbanistico e sociale della città.

E ancora oggi la Civiltà del Vino è il "genius loci", l'elemento caratterizzante di Canelli; una civiltà vissuta senza clamori e senza enfasi, a volte in maniera anche troppo modesta. La città conserva un cuore antico di struggente bellezza a dispetto delle molte profanazioni avvenute in tempi lontani e recenti. Un cuore che merita di essere scoperto così com'è, acciaccato forse, ma vero e autentico.

Aggrappato faticosamente alla collina la sua bellezza è tutta nel fascino silenzioso dei vecchi muri, delle stradine scoscese, dei viottoli dimenticati che sembrano appartenere ad altre epoche, nelle case che nulla hanno di pregevole se non la dignità composta della loro storia, del loro vissuto, nei relitti un po' enigmatici di fortificazioni e baluardi di cui si è smarrita la memoria ed il significato. Oppure nelle chiese barocche, testimoni puntuali di una dignità urbana e civile che ha connotato la Canelli del passato, sempre orgogliosa di non essere mai completamente città, e nemmeno irrimediabilmente paese; sempre conscia dei suoi limiti e sempre determinata a trasformarsi in virtù.

E poi giri l'angolo, alzi lo sguardo e c'è la vigna, ci sono le colline, c’è l'odore della terra, della campagna che compenetra e si amalgama allo spazio urbano. C'è un paesaggio agrario tra i più antichi e belli del Nord Italia, frutto di una permanenza secolare e caparbia di molte generazioni contadine, che per secoli, forse per millenni, si sono consumate sulle medesime vigne, sugli stessi poderi dai confini immutabili.

Testo di Gian Luigi Bera


Canelli, la città del vino

Canelli è una vera e propria "città del vino", oggi, come nel più remoto passato, tutto ruota attorno al mondo del vino, ben 782,51* (dati riferiti al 2000) sono gli ettari vitati (più del 50% dell'intera superficie agricola utilizzata) di cui ettari 719,1* con vigneti a DOC e DOCG, 524* le aziende agricole, trentacinque le aziende vinicole con industrie spumantiere di fama internazionale, e poi una cinquantina di aziende eno-meccaniche, sugherifici, laboratori di analisi, l'enoteca regionale ed altro ancora. Due vini D.O.C.G., otto vini D.O.C., spumanti, vermout ed altri aperitivi, amari ed altri digestivi, grappe ed altri liquori. Poi c'è l'orgoglio cittadino di aver dato i natali al primo spumante italiano ed a ben otto cavalieri del lavoro e tutti provenienti dal mondo del vino...... e poi c'è il vitigno moscato (il cui nome completo è "moscato bianco di Canelli") che fa da cornice a questa città del vino occupando la stragrande maggioranza dei 782,51 ettari vitati del comune.

E poi giri l'angolo, alzi lo sguardo e c'è la vigna, ci sono le colline, c’è l'odore della terra, della campagna che compenetra e si amalgama allo spazio urbano. C'è un paesaggio agrario tra i più antichi e belli del Nord Italia, frutto di una permanenza secolare e caparbia di molte generazioni contadine, che per secoli, forse per millenni, si sono consumate sulle medesime vigne, sugli stessi poderi dai confini immutabili. (La civiltà del vino)


Note storiche

La coltura della vite era già largamente diffusa a Canelli nell’epoca romana, come testimoniato dai numerosi ritrovamenti archeologici. Dopo un periodo di stasi conobbe nuovo impulso a partire dal XIII^ secolo, quando iniziò ad affermarsi sempre più decisamente la coltivazione del Moscato bianco, che prese poi l’appellativo “di Canelli”. Documenti d’archivio dimostrano che già tra il XVII^ e il XVIII^ secolo la città “esportava” fuori dal territorio comunale la bellezza di ventimila brente (diecimila ettolitri) di Moscato, arrivando agli inizi del ventesimo secolo al record di 60.000 ettolitri prodotti. Canelli, infatti, tra l'800 e i primi decenni del '900, visse una vera e propria "età dell'oro", in quell'epoca grazie all'invenzione del primo spumante italiano (nato a Canelli, ad opera dell'industriale Carlo Gancia) conquistò i mercati di tutto il mondo. Nel corso dell'800 sorsero a Canelli decine e decine di industrie enologiche e grazie al loro lavoro, studi scientifici condotti e alle innovazioni introdotte sia nella coltivazione della vite che nella produzione dei vini,  nacque la moderna viticoltura e la scienza enologica.

Canelli è ancora oggi il centro principale di raccolta e di lavorazione industriale dell’uva moscato bianco di Canelli e le industrie canellesi esportano in tutto il mondo il vino spumante che se ne ricava. Dal vitigno d’origine, il “moscato bianco di Canelli”, i pregiati vini che si producono, erano in passato chiamati "Moscato di Canelli" e "Moscato champagne".Successivamente, dopo l’attribuzione della denominazione di origine controllata "Moscato d’Asti" e "Asti Spumante", quest'ultimo  è chiamato più semplicemente "Asti".


Approfondimenti

  • "Notizie storiche sul moscato" (A. Strucchi M. Zecchini 1895)

Non si hanno notizie precise sull’epoca, nella quale fu importato il vitigno Moscato in Piemonte. La sua introduzione nella viticoltura subalpina è certamente antica, poiché se ne trova fatto cenno in documenti storici, che si conservano nel Comune di San Stefano Belbo (Cuneo) e in altri riguardanti la Signoria feudale del Castello di Canelli…..

Della coltivazione della vite in genere a Canelli si trova menzione in un istrumento originale di vendita (in pergamena) di una vigna che risale al 1297 (Archivio di Stato di Torino). Gli antichi Statuti del Comune di Canelli hanno parecchie disposizioni, assai minute e rigorose, a tutela delle vigne. Tra gli altri era uno dei precipui obblighi del Podestà di eleggere prontamente quattro guardie per ogni regione, le quali dovevano «per totum annum custodire et accusare omnes qui offendent in ipsis locis et toto anno in vineis et in omnibus alliis damnis et rebus». Gli Statuti di Cauelli furono riordinati ed accresciuti nel 1344, ma esistevano già prima di tale epoca, senza che possa precisarsi la data della loro prima formazione. Essi provano che sin d’allora la vite rappresentava la principale coltivazione del paese. Il Moscato, in particolare, trovasi nominata negli « Annali di Alessandria » di Gerolarno Ghilini (anno 1616), ma è probabile che la sua coltivazione a Canelli e nei paesi limitrofi dati da epoca più remota.

Il Ghilini narra che nell’ottobre del 1616 il Marchese di Mortara, Governatore di Alessandria, a capo di un corpo di esercito di Spagnuoli, prese il Castello di Canelli, e vi si installò. «Nel Castello (dice il Ghilini) si trovavano vettovaglie di ogni sorta, in gran copia, con una cantina di moscadelli dilicatissimi e d’altri generosi vini ripiena».

E’ pur fatta menzione del Moscato in una lettera di qualche anno prima (5 aprile 1593) del Magistrato di Casale Monferrato al Comune di San Stefano Belbo per provvista di «barbatelle di Moscatello» destinate al Duca di Mantova (4).

Lo stesso Magistrato di Casale il 20 settembre 1632 ordina al Comune di San Stefano di non vendere vini prima che il Magistrato di Nizza (2) abbia fatto le necessarie provviste, sotto pena della perdita dei vini. Il vino da provvedersi subito essere «Moscatello brente 30» (3). Una lettera del 23 ottobre stesso anno, sempre del Magistrato di Casale al Comune di San Stefano Belbo, ordina di inviare a Casale «quattro bottali di vino Moscatello» (4).

All’Archivio di Stato di Torino esistono molte «lettere particolari»della illustre famiglia Scarampi Crivelli. In una indirizzata al Duca di Savoia dal Marchese Carlo Antonio Scarampi Crivelli, Signore di Canelli, in data ‘19 gennaio 1674, supplica il Duca di «gradire un picciol tributo della mia ossequosissima devotione, con accettare due carra di vino che gli mando da Canelli, et di compatirmi se la squisitezza di quello non corrisponde al mio desiderio; mentre gli accidenti funesti della mia casa in tempo delle passate vendemmie non mi hanno permesso di provvedere a V. A. R. un carro di Moscatello et un altro d’uga passulla (5), come era mio intento, del migliore che si potesse fare».

(1)  Santo Stefano Belbo era sotto il dominio dei Duchi di Mantova, Marchesi del Monferrato.

(2)  Nizza della Paglia faceva anche parte del Marchesato del Monferrato, mentre Canelli, posto fra Nizza e San Stefano Belbo, era sotto il dominio di Casa Savoia.

(3)  La brenta piemontese equivaleva a 50 litri (mezzo ettolitro).

(4)  Bottale era un barile di forma assai lunga, che da solo bastava a formare il carico di un carro è la cui capacità si aggirava attorno ai dieci ettolitri.

(5)  Passeretta, uva a grappoli piccoli formati da acini anche molto piccoli, senza vinacciuoli; se ne fa vino assai delicato, meno profumato ma forse più fino dello stesso Moscato. La coltivazione del vitigno Passeretta, poco robusto e soggetto alla colatura, è in continua diminuzione a Canelli e altrove.

Note storiche tratta dal volume IL MOSCATO DI CANELLI di A. Strucchi e M. Zecchini, pubblicato a Torino nel 1895 dalla casa editrice UTET


  • "Origini e vicende dell'Asti spumante"

  • "Il Moscato" (G. Bera)

“Una serie di Comuni contigui appartenenti rispettivamente alla tre regioni dell’Astesana, dell’Alto Monferrato e delle Langhe costituiscono nel loro insieme una zona che, a buon diritto, può chiamarsi “zona del Moscato.....”. Così nel 1895, Arnaldo Strucchi, e Mario Zecchini, in una monografia dedicata al Moscato di Canelli definivano per la prima volta ed in modo impeccabile, l’area che molto più tardi sarebbe diventata la patria dell’Asti e del Moscato d’Asti D.O.C.G. I due autori avevano già capito che un vino di pregio non può mai essere disgiunto dalle terre da cui nasce: da esse, come la vite ne succhia gli umori e le linfe, assimila memorie, suggestioni, tradizioni, carattere, cultura. Se il Moscato d’Asti e l’Asti rappresentano ormai il “genius loci” delle zone da cui provengono, a loro volta tali zone sono il presupposto principale alla loro unicità ed irripetibilità.

Parliamo di “zone” al plurale perché non si può conoscere il Moscato se non si assimila prima questa fondamentale nozione: la sua area di produzione è “trinaria“ ed è costituita da considerevoli porzioni di tre fra le principali sub-Regioni Enoiche e Storiche del Piemonte, cioè l’Astesana, le Langhe e il Monferrato, che in essa si incontrano e dialogano senza rinunciare alle rispettive peculiarità. In questo meraviglioso trittico di personaggi, di memorie, di culture, Canelli è proprio nel mezzo, ombelico, fulcro, anello di congiunzione, avamposto di frontiera e “porta del Mondo” per usare un’espressione di Cesare Pavese.

Per secoli qui si intersecarono confini funestati da guerre incessanti, ma anche rotte di transito e di importanti percorsi commerciali. Poiché le frontiere separano ed uniscono in egual misura, Canelli ha visto per secoli scontrarsi gli uomini ed ha fatto in modo che la seconda attività potesse comunque sempre prevalere sulla prima.

Questo per la storia e per la geografia, per il Moscato e per l’Asti il discorso si ribalta completamente e Canelli diventa elemento generatore, luogo magico dove tutto ha avuto inizio, “alma mater” di questi due vini. Andiamo con ordine: il Moscato arrivò in Piemonte nel XIII secolo, e si diffuse ben presto in tutta le Regione, sia pure in quantità modeste. Nel quattrocento emergevano già le prime aree pregiate: non solo Astesana e Monferrato, ma anche Saluzzo, Pinerolo etc. Nelle cinque-seicento i Duchi di Savoia consolidano le fortune del Moscato di Canelli e di Calosso scegliendolo personalmente con le proprie tavole; i nemici Gonzaga, Marchesi di Monferrato, si rivolgono a Nizza e Santo Stefano Belbo per la stessa ragione.

A partire dalla fine del XVII secolo si innesca un particolare fenomeno: mentre in tutto il Piemonte la coltivazione del Moscato rimane stazionaria, o decresce fino a scomparire, a Canelli aumenta in misura esponenziale. Merito, sicuramente, di più razionali tecniche di vinificazione elaborate in loco e anche di maggior intraprendenza commerciale. Nel 1753 l’Intendente delle “regie Finanze” in visita a Canelli può scrivere che il Moscato è ”.....lo maggior frutto di queste terre, qual riesce dilicato dolce et perfettostante massime l’Industria delli abitatori......” parole e date fatidiche, che sanciscono l’ormai avvenuta trasformazione di Canelli da semplice cittadina agricola a centro enologico d’importanza europea. Il Moscato diventa la vita stessa della comunità, quando a partire dalla fine del Settecento nascono e si moltiplicano le prime industrie imbottigliatrici, moltiplicando i posti di lavoro e la popolazione residente, caratterizzando in modo indelebile l’economia, l’urbanistica, la società canellese. Nel 1895 nel solo Comune di Canelli si coltivava la metà di tutto il Moscato esistente in Piemonte, e se ne imbottigliava e commercializzava la maggior parte. Nel XX secolo le fortune internazionali dell’Asti comportarono l’ampliamento della zona di origine, giunta ad interessare ben 52 Comuni tra Astesana, Langhe e Alto Monferrato. Ma Canelli può vantare ancora, e a buon diritto, il titolo di “Capitale dell’Asti e del Moscato d’Asti” nessun altro centro le può opporre altrettanta storia, altrettante tradizione, altrettante prestigio.

Una ricchezza certamente assai poco sfruttata, poco o punto esibita, conformemente al carattere della Sua gente che odia ogni forma di ostentazione; ma una ricchezza completa e solida con cui tutto il mondo del Moscato e dell’Asti deve imparare a confrontarsi, e a cui non può fare a meno di attingere.

A sua volta Canelli non può rinunciare al ruolo di chiave indispensabile per aprire quello scrigno di tesori (ambientali, culturali, enogastronomici) rappresentato dalle terre dell’Asti, o se si vuole, al ruolo di magico crocevia dove le stesse terre si incontrano, hanno inizio o completezza, si definiscono e, a volte, si fondono nello stesso calice di nettere prezioso.

Testo: G. Bera


  • Per una storia dell’enologia piemontese, Le cantine storiche di Canelli: un fenomeno di “lunga durata” (P. Cirio)

Alcune premesse

Nel quadro generale della storia dell’industria italiana merita particolare attenzione un settore che finora è stato poco indagato dalla ricerca ufficiale. Si tratta dell’industria enologica piemontese dei vermouth e degli spumanti che si colloca nelle terre del Basso Piemonte, poste fra le Langhe e il Monferrato, lungo la Valle del Belbo e che trova il suo cuore produttivo e propulsivo nel centro di Canelli. Qui si produce l’uva Moscato, base di queste produzioni. Questo settore è composto da un nucleo di aziende concentrate tutte su un territorio relativamente ristretto, tra le quali spiccano quelle che portano nomi diventati storici nell’ambito dell’enologia e la cui fama ha abbandonato da tempo i confini territoriali per essere riconosciuta non solo sul piano Nazionale ma Internazionale e Mondiale.

Questi nomi sono diventati sinonimo di prestigio, notorietà, successo: sono entrati a far parte della letteratura, del mito, dell’immaginario collettivo perché evocatori di luoghi esotici, di incontri memorabili, di brindisi segreti e pubblici. Questi nomi devono la loro fortuna ad un gruppo di pionieri imprenditori dalle idee ed intuizioni originali che fin dagli albori del XIX secolo, cogliendo gli stimoli che la situazione del commercio vinicolo offriva, superò i vecchi schemi della vinificazione artigianale e iniziò la lavorazione su scala industriale di prodotti destinati a conquistare il mercato internazionale. Le Case da loro generate, nate ormai più di due secoli fa, con straordinaria continuità sono giunte fino all’oggi senza conoscere cesure tra i primigeni modelli “preindustriali” che, riguardavano sostanzialmente un’attività di produzione e di smercio di vini e liquori, e le successive evolute forme di attività organizzate moderni sistemi di fabbrica. La loro evoluzione e il loro sviluppo hanno dato impulso, senza soluzione di continuità, anche a quel settore della vitivinicoltura ad essa collegato, che è andato via via rimodellandosi insieme alla loro lunga storia. Così è stato per quel comparto dell’indotto formato dalle attività produttive parallele che sono state nel passato e sono nel presente considerate all’avanguardia nella ricerca tecnologica.

 Nell’arco di una vicenda plurisecolare queste aziende hanno poi intrecciato il loro percorso con la storia tormentata del nostro Paese, scandendone non solo le tappe salienti dello sviluppo economico, ma anche l’evoluzione del costume, delle tradizioni culturali, del gusto e delle mode. E’ stato un intreccio profondo che ha sedimentato un imponente “ corpus” non solo di strutture di fabbrica e di opifici industriali. Sulle antiche cantine ottocentesche che mantengono inalterato l’ordine originario, si sono, infatti, sovrapposti e stratificati gli edifici moderni scandendo così i passaggi epocali di tutte le fasi dello sviluppo tecnologico.

Mano a mano che queste aziende abbandonavano i caratteri artigianali degli esordi per imporsi in ambiti prima nazionali e poi internazionali (con i loro punti vendita, stabilimenti, con le ditte consociate, con le agenzie di commercio), nei loro archivi, nei loro spazi, sono affluiti oggetti, carte, macchinari, scritture, così da costruire progressivamente eccezionali testimonianze utili non solo a ricostruire l’origine e lo sviluppo di ogni singola impresa ma anche a comprendere i nodi centrali della storia dell’industrializzazione italiana.


Nodi problematici sull'origine delle aziende

Analizzando le fonti presenti negli archivi delle più antiche Case di produzione enologica, studiando a fondo gli impianti strutturali e produttivi che, come e’ stato detto, dimostrano una straordinaria continuità temporale, si nota che tali aziende, dagli esordi artigianali del XVIII e XIX secolo presentano già, negli anni che di poco seguono l’Unificazione, i caratteri di una evoluzione industriale non consueta nel generale quadro di riferimento italiano, a quell’epoca ancora piuttosto arretrato. Come e’ noto, infatti, il nostro paese solo piu’ tardi e precisamente dopo il 1890, vivrà la sua prima intensa fase del “ big- spurt” o dello “ slancio imprenditoriale”.

Le linee di questa “precocità” sono individuabili nella presenza di una chiara SPECIALIZZAZIONE e CARATTERIZZAZIONE PRODUTTIVA, nella presenza di sistemi di RAZIONALIZZAZIONE DELLE STRUTTURE MANIFATTURIERE, nell’impiego di MANODOPERA STABILE, nell’applicazione di TECNOLOGIE INNOVATIVE ai processi di lavorazione delle uve e delle merci. Altri tratti si scorgono nella evidente attuazione di metodi moderni nella CONDUZIONE DELLE IMPRESE e nella ORGANIZZAZIONE COMMERCIALE in grado di mutare i confini e gli orizzonti dei mercati che, dopo i primissimi passi, si rivelano costantemente in crescita di vastità diventando ben presto più che continentali mondiali.

Le ragioni di questa precocità credo vadano rintracciate nelle situazioni di lungo periodo che si legano inesorabilmente con il nodo problematico delle origini delle imprese e con l’intreccio quotidiano della loro storia con il più vasto quadro degli avvenimenti umani. Non e’ certo questa la sede per affrontare un tema di così vasto spessore storiografico; tuttavia non mi sembra inutile fornire alcune tracce di indagine in grado di muovere un campo di ricerca che da qui potrebbe trovare le sue fondamenta per essere ampliato.

Per capire quindi la nascita e lo sviluppo dell’industria dei vermouth e degli spumanti si deve innanzi tutto puntare l’attenzione su alcune questioni di fondo che a mio parere devono guidare in maniera preliminare i successivi tracciati di studio e le possibili ipotesi interpretative. Esse potrebbero essere sintetizzate nelle seguenti domande:

1)  La vicenda dello sviluppo dell’industria enologica di Canelli come si inserisce nella dinamica del processo di industrializzazione italiana?

2)  Quali sono gli elementi strutturali e congiunturali che determinano la loro nascita e come si inquadrano nelle scelte più generali della politica economica della classe dirigente subalpina prima e nazionale poi?

3)  Quali sono le ragioni di una continuità temporale che ha visto queste aziende muoversi con successo lungo l’arco di due secoli arrivando fino all’oggi col loro bagaglio di tradizioni e innovazioni nel settore?

4)  Come si è evoluto il rapporto tra l’agricoltura e l’industria nel contesto socio-economico delle Terre del moscato?

Rispetto a questi punti devo dire che alla luce degli studi finora condotti un dato sembra essere stato appurato con certezza: quello che dimostra che l’industria enologica dei vermouth e degli spumanti, insieme con quella tessile, e’ tra le più antiche industrie italiane. Rientrando nel genere delle cosiddette “ industrie naturali” e cioè di quelle industrie che potevano usufruire di una abbondante materia prima presente sul territorio, fin dalle origini, furono anche considerate indispensabili per lo sviluppo del Paese e quindi fortemente volute, stimolate ed aiutate dalle classi dirigenti, anche del periodo preunitario.

L’industria enologica di Canelli come quelle tessile di Biella, di Schio, di Prato si sviluppò precocemente anche per le scelte detate da una politica economica che puntava su quelle che si pensavano fossero le vere risorse dell’Italia. Questa linea, come si sa, venne ben presto abbandonata (già a partire dall’età Giolittiana), per privilegiare lo sviluppo dell’industria pesante di cui però il nostro paese non possedeva le materie prime. Ciò cominciò a generare fin dall’inizio del secolo scorso quegli squilibri economici che oggi più che mai risultano visibili agli occhi dei contemporanei.

Per l’indagine sulle origini , sugli sviluppi precoci, nonché sulla durata di questo genere di attività diventa dunque fondamentale puntare l’attenzione anche e soprattutto sullo studio delle materie prime utili al processo industriale, analizzando il rapporto tra risorse del territorio (e qui l’indagine non può che non approfondire la realtà del Moscato di Canelli) e scelte produttive industriali;sulla storia degli imprenditori che sono stati gli artefici di questo sviluppo;sulla storia delle realtà della politica economica in cui si sono generate queste forme di industrializzazione del nostro paese; sulla storia della tecnologia e della ricerca sperimentale applicata al mondo delle produzioni enologiche tra Ottocento e Novecento.


Alcune notizie sui primi imprenditori del Vermouth e dello Spumante

Molte notizie sono state finora raccolte sulle figure dei primi imprenditori enologici. Alcune biografie edite hanno già ricostruito i più significativi casi di studio, ma la ricerca deve essere ulteriormente estesa tanto da toccare anche le aziende di più recente formazione e le attività del così detto indotto sviluppatosi in seguito al progredire delle Case enologiche.

Per dare qui solo alcuni brevi cenni diremo che artefice dell’impianto delle prime forme di attività enologica e’ un gruppo di imprenditori pionieri che hanno alle spalle attività che li collocano nel ceto del patriziato agrario evolutosi in senso mercantile. Sono modelli di uomini costruiti su una plurisecolare serie, datata dai tempi di Emanuele Filiberto di Savoia, di proprietari terrieri, lavoratori in proprio, organizzatori delle istituzioni comunitarie, consiglieri di credenza e anche mercanti. Piu’ che mai per l’enologia si tratta in genere di uomini che da generazioni si sono confrontati con il commercio vinicolo, che sanno cogliere con slancio gli stimoli provenienti dall’esterno e in gran parte dettati dalle linee di una politica economica che, dal tempo dell’assolutismo riformatore, si sono indirizzate alla valorizzazione del settore agronomico.

Con la loro azione, orientata fin da principio a proporre creazioni specialistiche e specializzate, questi uomini pongono le basi per il superamento dell’arretratezza generale in cui versava l’economia vitivinicola delle nostre regioni. Non era un caso, infatti, che i vini, frutto del millenario empirismo contadino, non avessero fino a quel momento mai potuto varcare i confini di mercati strettamente locali. A rafforzare i caratteri progressivi di queste prime forme di attività imprenditoriale enologica si aggiunsero tra Settecento ed Ottocento, anche elementi congiunturali esterni. L’incremento della viticoltura specializzata e lo sviluppo della ricerca sperimentale e scientifica in campo chimico ( con gli studi di Pasteur e Liebig si esce dalle soluzioni tradizionali per approdare ad una precisa conoscenza e valutazione della materia prima con interventi più sicuri nel processo di fermentazione e conservazione della produzione). Questi elementi fecero sì che, in molti casi, le potenzialità racchiuse nelle singole esperienze economiche assumessero tratti più marcatamente dinamici e più spiccatamente “industriali”.

Queste sono le linee generali entro le quali si collocano la nascita e il primo sviluppo delle industrie dei vermouth e spumanti.

Occorre però precisare che se in molti casi mercanti e pionieri imprenditori rimangono fermi allo stadio di “fabbricanti” non riuscendo ad oltrepassare le soglie delle prime botteghe di smercio e delle prime cantine – laboratori, o si inseriscono nelle correnti di mercato solo quando le produzioni risulteranno collaudate sul piano scientifico o libere dai rischi legati alle sperimentazioni, gli industriali storici – e qui sta uno dei principali punti che li differenzia e caratterizza - sembrano cogliere con anticipo e con audacia i segnali delle grandi trasformazioni che seguono la fase della transizione tra mercantilismo e capitalismo. Si lanciano nella sperimentazione e nella ricerca, rischiano in proprio, utilizzano i profitti ricavati dalla vendita delle loro produzioni collaudate per sperimentare nuove soluzioni. Sanno compiere, cioè, graduali passaggi verso forme di evoluzione industriale che non presentano cesure, altro elemento di estremo interesse, con l’attività famigliare di mediatori nella compravendita dei vini, di maestri confetturieri o di  chimici con la quale si sono misurati in un percorso di lunga data.

I capostipiti delle industrie canellesi si ritrovano, infatti, già ampiamente sollecitati dalle dinamiche commerciali del XVIII secolo. Produttori in genere di vini, elisir e rosoli nelle comunità cittadine si innestano con prontezza nelle correnti di traffico stimolate dai sovrani riformatori, ma soprattutto dall’epoca napoleonica. Da abili fabbricanti a maestri vinificatori con le loro merci si fanno conoscere soprattutto dalla crescente borghesia urbana che affascinata dalle produzioni d’oltralpe stimola presso di noi la ricerca, la sperimentazione in campo produttivo enologico.

E’ così che i nostri pionieri si cimentano in nuove formule, nuove soluzioni utilizzando come materie prime le uve prodotte nelle nostre plaghe viticole. Impegnano propri capitali e profitti per lanciarsi in prove decennali per sperimentare la possibilità di arrivare a formule che avvicinino i nostri vini a quelli Francesi. E’ con questo impegno che giungono così alla creazione dei vermouth e degli spumanti, a base moscato, un’uva fino a quel momento rimasta semisconosciuta e relegata a produrre un vino “ adatto alle signore” o a “servir Messa”  e con poche possibilità di smercio. Intuiscono e sfruttano le potenzialità di questo prodotto e lo lanciano con successo nelle correnti di mercato.

E’ sull’onda di queste sperimentazioni, che hanno inizio fin dai primi anni del 1800, essi cercano appoggi locali, creano cantine nella zona del basso Piemonte dove si concentra la produzione di quest’uva.

Sono tutte degli albori dell’800 le prime installazioni canellesi di questi pionieri che arrivano spesso da fuori e che credono fermamente in quello che fanno.

L’epoca del resto e’ quella in cui il Piemonte, trovandosi annesso alla Francia in seguito alle guerre napoleoniche, non solo cerca di imitare i prestigiosi Champagne, ma cerca di arrivare a creazioni innovative e originali in grado di caratterizzare le nostre realtà. D’altra parte l’emulazione del caso francese che da secoli deteneva il monopolio della produzione e del commercio vinicolo stimolava nella regione subalpina un ampio dibattito. Il Piemonte, infatti, pur offrendo sul piano vitivinicolo grandi potenzialità (possedeva ¼ della produzione dell’intera penisola), non riusciva a far decollare, al di là dei vini fini, degli elisir, dei liquori e dei rosati, altre produzioni di prestigio. Piuttosto ristretto appariva anche il commercio. Si calcola, infatti, che la Francia su una superficie complessiva adibita a vite di 46 milioni di ettari, producesse all’inizio dell’800, 50 milioni di ettolitri di vini, metà dei quali destinati all’esportazione.

L’Italia su una superficie di poco superiore non ne produceva che 30, di cui solo 1/5 era destinato al commercio.

Nel campo delle specializzazioni sempre la Francia deteneva poi il primato assoluto smerciando all’estero, nel solo 1845, ben 6.635.652 bottiglie di Champagne su una produzione complessiva di 12 milioni. Ogni anno questa cifra si accresceva di 300.000 unità.

Proprio questo esempio aveva spinto la nostra borghesia agraria emersa in epoca napoleonica e poi la stessa corona Sabauda con a capo Carlo Alberto, cresciuto e formatosi alle scuole francesi e per questo molto attento all’esempio proposto da questa nazione, a tentare di realizzare anche nel regno Italiano vini simili allo Champagne. Ma nonostante si fossero chiamati tecnici d’Oltralpe, si fossero tentate le vie degli impianti dei vitigni francesi, base della prestigiosa produzione, i risultati sembravano difficili da raggiungere. Su questo nodo problematico i nostri pionieri dell’industria enologica, già divenuti quasi tutti produttori di Vermouth, sanno realizzare i loro sforzi, spingendosi là dove la ricerca sperimentale sembrava dover dare risposte soddisfacenti. Alle prove di applicazione del metodo francese alle uve pinot prodotte sperimentalmente anche nelle terre piemontesi, affiancano le prove sul moscato già da tempo da loro stessi utilizzato per la preparazione del vermouth. Ma se per il vermouth era sufficiente prendere il vino semilavorato dei contadini e affinarlo nelle

cantine, nei laboratori ancora cittadini, per quello che sarà poi lo spumante (definito a quell’epoca presso di noi “champagne moscato” o “moscato champagne”), era necessario agire direttamente sulla materia prima, sulle uve, selezionare le partite, indirizzarne i tempi di raccolta, seguire i passaggi della stessa loro coltivazione. Ed e’ per questa ragione che essi impiantano i loro primi opifici in quelle zone dove il moscato da millenni risultava il vitigno più adatto alla struttura e alla composizione dei  terreni. In questo senso e’ possibile dire che i nodi della ricerca sperimentale e della territorialità intese come scelta del territorio su cui collocarsi sono essenziali da indagare per mettere in giusta luce il divenire storico delle aziende.


Le ipotesi di ricerca

Quella che e’ stata la storia di questa industria e dei suoi prodotti nel corso del Novecento, se da un lato ha già prodotto, limitatamente ad alcuni casi, alcuni saggi storiografici, rimane sostanzialmente da scrivere nella sua completezza. In questo senso la ricerca oltre che puntare l’attenzione su quei nodi preliminari detti in apertura e utili a sondare i problemi delle origini, dovrebbe procedere sull’arco di tutto il secolo XX, fino all’oggi e concentrarsi su alcuni filoni.

Innanzi tutto ci sembra sia importante dare spazio alle biografie di quegli uomini e di quelle donne che sono stati gli artefici della fondazione, della conduzione e del consolidamento delle imprese. Sono importanti dinastie da indagare, studiare e conoscere.

La storia delle aziende canellesi non potrebbe reggere poi senza la storia di quelle campagne che le hanno viste nascere e crescere. Le campagne del moscato, le loro trasformazioni agrarie e fondiarie, la storia di quei contadini che come due secoli fa diventano, ancor oggi, anche solo stagionalmente, operai nelle aziende stesse dando origine ad una figura del tutto inedita dalla doppia identità che e’ interessante da indagare anche dal punto di vista socio - antropologico. Le campagne infine con i loro mediatori di uve, anch’essi figure chiave per il successo delle aziende industriali ma anche per quelle contadine.

Importanti spunti di riflessione potrebbero essere offerti poi dallo studio delle sperimentazioni scientifiche applicate al mondo del moscato nel corso del Novecento. Partendo dall’indagine su quei primi tentativi quasi alchemici delle botteghe laboratorio del Settecento e Ottocento, passando per le innovazioni rintracciabili ancora oggi nei preziosi formulari giacenti negli archivi delle ditte, ma anche attraverso il patrimonio racchiuso nelle carte delle Accademie agrarie, delle scuole di enologia (risale al 1872 la nascita della scuola sperimentale di Asti, seguirà quella di Alba), dell’attività’ pubblicistica della Gazzetta Agraria, già cara al Cavour e al Depretis o di quella fornita dalle preziose, per quanto mai didatticamente utili Cattedre di agricoltura e delle attività della Società Enofila artigiana fino ad arrivare ai moderni studi di enologia. E qui il discorso dovrebbe essere allargato alle biografie di quegli insigni agronomi e tecnici spesso “scienziati” che, chiamati al servizio delle aziende, con le loro continue fatiche di ricercatori ne hanno spesso ampliato le fortune.

E che dire poi dello studio della dinamica dell’espansione commerciale di queste Case, che partono dalle prime forme di vendita all’ingrosso e al dettaglio nelle caffetterie e liquorerie cittadine per passare, già tra Ottocento e Novecento , alla conquista vera e propria dei mercati mondiali.

In questo senso diventa importante soffermarsi anche sull’attività dei viaggiatori di commercio, considerati tasselli fondamentali dei progetti industriali delle Case vinicole. Né mercanti né imprenditori questi soggetti che inglobavano le abilità dei primi e le capacità di rischio dei secondi, con le loro suadenti azioni del “saper vendere” e del “saper contrattare” furono, infatti, i principali artefici di una colonizzazione commerciale senza facili confronti. Dallo studio dei loro diari, rapporti fotografici e scritti, trofei e riconoscimenti provenienti da tutti i paesi visitati per promuovere il prodotto, sarebbero delineate con chiarezza le tappe di una conquista commerciale in gran parte legata secondo lo spirito del tempo alla qualità delle risorse individuali.

Sempre in questo filone andrebbero iscritte come campi di indagine, lo studio delle esposizioni universali, delle fiere commerciali che sempre tra Ottocento e Novecento furono veri trampolini di lancio per la conoscenza dei prodotti delle case canellesi sul mercato mondiale.

Assolutamente non trascurabile poi dovrebbe essere lo studio della legislazione che conduce al riconoscimento delle denominazioni nazionali dei prodotti delle case canellesi. Fu un faticoso cammino durato piu’ di mezzo secolo e che trovò il suo punto fermo nella costituzione, negli anni Trenta del Novecento, del “Consorzio di tutela dell’Asti Spumante”, fortemente voluto dai piu’ lungimiranti industriali canellesi. Con questo approdo fu abbandonato lo schema caotico delle denominazioni delle nostre produzioni che, utilizzando nomi stranieri per la mancata adesione dell’Italia alla Convenzione di Madrid del 1891, che sanciva la denominazione dei vini in base alle aree di produzione, non erano riuscite fino a quel momento ad avere una precisa identità, generando confusioni e perdita di prestigio.

E ancora: lo studio delle tecnologie e delle evoluzioni degli impianti di produzione porterebbe ad evidenziare quanto finora sostenuto sulla precocità dello sviluppo industriale enologico inteso come sistema di razionalizzazione produttivo e come applicazione di metodi innovativi ai processi di lavorazione dei prodotti. Basterebbe indagare sui reperti ancor oggi visibili, sulle carte delle aziende per cogliere come fosse evidente tutto ciò già nel primo quinquennio che seguì il 1861. In quegli anni alcuni degli stabilimenti enologici erano citati nella pubblicistica degli addetti ai lavori come all’avanguardia per la concentrazione di macchinari, per la continua innovazione dei sistemi di lavorazione (e’ già di quel periodo la fase della ricerca che porterà nei primi anni del Novecento ad  adottare, oltre al metodo Champenoise classico, quello più innovativo detto  Charmat o Martinotti), per l’organizzazione della manodopera quasi tutta specializzata, per la meccanizzazione e lo sviluppo tecnologico. Questi processi di crescita non hanno mai subito interruzioni e nel loro continuo divenire mai hanno mai sostituito del tutto alcune tecniche di lavorazione condotte manualmente oggi come due secoli fa.

Si pensi alle operazioni del “remouage” o del “degorgement” considerate ancor oggi azioni quasi rituali da compiere al flebile raggio di lumi nelle cantine sotterranee, veri e propri scrigni scavati nella roccia, dove le bottiglie degli spumanti dormono oggi come secoli fa accatastate e dolcemente inclinate sulle “pupitres”.

E infine non e’ da trascurare anche la storia della pubblicità che per questo settore taglia trasversalmente tutte le epoche: dalle prime “ reclame “ od “ affiches “ per approdare, passando per la cartellonistica, i giornali, la radio, la televisione fino al cinema. In questo senso la sistematica analisi delle produzioni pubblicitarie di queste case può consentire non solo lo studio dettagliato delle produzioni e delle loro diversificazioni epocali, ma il recupero pieno dell’intreccio tra storia delle aziende, storia del costume, storia del gusto e storia del paese.

Questi sono solo alcuni degli spunti di ricerca che possono nascere dallo studio delle Cantine Storiche di Canelli. Con la loro consolidata presenza sul territorio locale, la loro ramificazione sui mercati mondiali, la loro plurisecolare esperienza nel campo della promozione di prodotti unici sul mercato della Terra, possono fornirci un validissimo supporto per la ricerca interdisciplinare.

Studiarle diventa quindi non solo una necessità ma un dovere per non disperdere il loro patrimonio di esperienze, cultura e scienza costruito in due secoli e utile all’intera Umanità.


Alcuni spunti bibliografici

Non è possibile fornire qui tutti i titoli raccolti sulla storia dell’enologia piemontese; tuttavia non ci pare inutile fornire qualche indicazione sul tema. Per gli archivi delle industrie canellesi si veda il volume di prossima uscita “la memoria delle carte. Guida agli archivi industriali in Italia" di chi scrive.

Per alcuni rapidi spunti generali e particolari, i seguenti titoli possono essere utili:

  • P. CIRIO: Carlo e Camillo Gancia – Strategie industriali 1850 – 1935. edizione GRIBAUDO, 1990
  • P. CIRIO: Cinzano nel mondo. Modelli di evoluzione industriale e di espansione commerciale. fra ’800 e ’900.In: Catalogo della mostra “Archivi Storici Santa Vittoria” edizione GLOBAL IMAGE, Milano, 1994
  • M. ABRATE: I centocinquant’anni di una impresa: la Bosca di Canelli .In : Studi Piemontesi, volume IX, Torino 1981
  • E. CABALLO: Monografia sul conte Enrico Marone Cinzano.In : Notizie Internazionali Cinzano, 1969
  • K. GLAMANN: La Trasformazione del settore commerciale.In: Storia Economica Cambridge, volume II, Torino, Einaudi, 1978
  • K. H. SCHRODER L’ancienne extension de La Viticulture dans le nord-est de l’Europe central. In: Geographie hystorique des vignobles . Parigi, 1904
  • I. REMOUARD Les hommes d’affaires italiennes du Moyen Age. Parigi, 1956
  • J LE GOLF Marchand et banquiers du Moyen Age. Parigi, 1956
  • P. CIRIO, V. RAPETTI Alle origini dello spumante italiano. L’industria Enologica di Canelli fine ’800 – 1939. In: Atti del Convegno mercati e consumi. Organizzazione e qualificazione del commercio in Italia dal XII al XX secolo. Edizioni ANALISI, Bologna, 1986
  • A MARESCALCHI Storia della vite e del vino in Italia. I parte, volume I, Milano, 1933
  • A. STRUCCHI Biografie di insigni agronomi piemontesi .Torino, 1886
  • G. B. CERLETTI La produzione ed il commercio del vino in Italia. Milano, 1876
  • S. MONDINI Produzione e commercio del vino in Italia. Torino, 1899
  • G. DALMASSO Storia della vita e del vino in Italia. Milano, 1931
  • G. B. CERLETTI La produzione e il commercio di vini in Italia. Milano, Hoepli, 1876
  • C. MENSIO Il moscato spumante osservazioni e studi. In: Stazioni. Sperimentali Agrarie Italiane, 1909
  • A. STRUCCHI Tutela delle denominazioni di origine dei vini tipici Italiani. Alba, Sansoldi, 1909
  • S. MONDINI Industria, enologia, produzioni, commercio e regime Doganale. Milano, Hoepli, 1916
  • A. STRUCCHI I nuovi orizzonti del commercio vinicolo. Alba, 1910
  • P. D. DEMARIA, C. LEADI Ampelografia della provincia di Alessandria .Torino, 1975
  • A. GARINO-CANINA .L’industria dei vini spumanti. Milano,1942
  • C. TARANTOLA .Il Moscato d’Asti e l’Asti Spumante nel passato e oggi .
  • G. FORTE Champagne e Spumanti. Milano, 1982

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